Web tax europea, un modello che punta alla ritenuta sui ricavi

L’individuazione della struttura di un’efficiente web tax rappresenta una delle sfide di maggior rilievo che i ministri economici europei si troveranno ad affrontare durante la prossima riunione dell’Ecofin a Tallin.

Del resto l’Ocse stesso fino ad oggi si è limitato ad elaborare (action plan 1 del progetto Beps) alcune possibili modelli di tassazione dei giganti del web, lasciando la possibilità a ogni singolo Paese di implementare regole specifiche di contrasto alla mancata tassazione dei profitti del web, scegliendole nell’ambito delle linee guida individuate ovvero diversamente elaborate sempre che non in contrasto con i Trattati internazionali e il diritto euro-unitario.

Tra le varie proposte avanzate in sede Ocse – nel cui ambito ritroviamo la tassazione della società estera sulla base della sua «presenza economica significativa», l’applicazione di ritenute sulle «operazioni digitali» (peraltro abbandonata dall’ultimo report) o l’introduzione di un tributo “equalizzatore” – quest’ultima parrebbe quella che i ministri economici di Italia, Francia, Germania e Spagna proporranno agli altri colleghi europei e di cui la Commissione europea dovrà valutare la compatibilità con la normativa europea e con quella internazionale.

Qualora il modello di riferimento fosse quello dell’equalisation tax indiana (la cosiddetta equalisation levy), si dovrebbe trattare di un tributo applicabile alle imprese fornitrici di servizi digitali non residenti e prive di una stabile organizzazione nello Stato in cui vendono tali servizi, in ciò differenziandosi dalla attuale web tax transitoria che consiste in un semplice accordo con il fisco italiano avente ad oggetto la presenza o meno di una stabile organizzazione dei gruppi multinazionali con un fatturato superiore ai 50 milioni. Lo strumento è quello di una ritenuta sui pagamenti a favore di soggetti non residenti senza stabile organizzazione.

L’obiettivo è quello di eliminare ogni tipo di discriminazione nel trattamento tra imprese residenti e non residenti, a prescindere dal tipo di attività svolta, e assicurare al contempo certezza nei rapporti tributari. È tuttavia ritenuto complesso isolare l’ambito applicativo di questo tributo (accisa, imposta sul reddito, duplicazione dell’Iva o altro?), il quale oltretutto sembrerebbe porre problemi di compatibilità con il diritto dell’Unione e dell’Organizzatore mondiale del commercio (Omc).

Nel modello indiano, per esigenze di semplificazione legate al meccanismo di applicazione del tributo e per evitare eccessive penalizzazioni nei confronti di privati consumatori, si è scelta la soluzione di tassare solo le operazioni B2B nel caso in cui il volume d’affari complessivo superi una certa soglia; lasciando fuori, quindi, dal campo di applicazione del tributo le prestazioni verso privati consumatori finali, ciò che, ove fosse mutuato nell’equalisation tax europea, dovrebbe comunque fare i conti con il diritto euro-unitario (direttiva Iva 112/2006).

Quanto alla misura dell’eventuale prelievo ipotizzato, l’aliquota dovrebbe essere fissata in misura tale da tener conto del fatto che la ritenuta si applica sui corrispettivi e quindi al lordo dei costi di produzione così eguagliando l’incidenza “effettiva” delle imposte sul reddito gravanti sulle medesime attività laddove le stesse fossero svolte per il tramite di una stabile organizzazione.

Il problema della doppia imposizione italiana, nella prospettiva di un tributo con natura di imposta sul reddito, potrebbe essere superato prevedendo l’esenzione totale per i ricavi in questione; la doppia imposizione, tuttavia, permarrebbe nello Stato di residenza del fornitore ove non fosse riconosciuto il credito per le imposte pagate all’estero. Rimane comunque sul tappeto il problema della doppia imposizione internazionale e degli strumenti per evitarla o attenuarla, non potendosi trascurare la circostanza che i trattati bilaterali contro le doppie imposizioni presuppongono la natura reddituale dei tributi cui essi si applicano.

È evidente che l’individuazione dell’equalisation tax quale strumento per colpire i profitti digitali non è esente da profili di criticità. Ma lo sforzo che emerge dalla proposta in questione è quello di non attendere oltre nell’affrontare il tema della tassazione dei profitti digitali, neppure la più recente soluzione che sembra prospettarsi alla luce del draft report del 13 luglio sulla proposta di direttiva del Consiglio europeo in tema di Ccctb (la base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società) che si basa sul «formulary apportionment» applicato anche alle attività digitali e consistente in una formula di allocazione del reddito basata su alcuni parametri di riferimento quali la forza lavoro, gli asset detenuti e le vendite effettuate.